La Shoah di Katia Bleier
A cura di Gigliola Sulis
Presenza decisiva nella vita e nel fare letterario di Luigi Meneghello, Katia Bleier appare di rado nel mondo narrativo-memoriale del marito, sia per un profondo pudore dei sentimenti, sia in virtù di quel riserbo che, insieme alla forza di volontà, di Katia è stato cifra esistenziale.
Tale discrezione si fa rarefazione e protettivo silenzio intorno alla tragedia della Shoah, che ha travolto la famiglia di lei nella Jugoslavia dei primi anni quaranta.
I fratelli Laci e Vera sono uccisi in Croazia e Bosnia da ustascia e nazisti, mentre ad Auschwitz perdono la vita i genitori, una cognata e un nipotino. Ognuno di loro ha una Pagina di Testimonianza allo Yad Vashem di Gerusalemme, l’Ente Nazionale per la Memoria della Shoah.
Allo sterminio segue la diaspora. Il fratello Géza e la famiglia riparano negli Stati Uniti, mentre la sorella Olga e il cognato si stabiliscono in Veneto, dove erano stati internati. Katia, sopravvissuta ad Auschwitz e Belsen, li raggiunge a Malo; con il marito, saranno poi «stanziali qui e lì» [*] tra il vicentino e l’Inghilterra.
Nessuno dei sopravvissuti fa ritorno alle terre d’origine.
Ricostruire le traiettorie transnazionali dei Bleier tra ricordi di famiglia, lettere e archivi si configura come contributo per salvare le voci e le storie dei singoli, riconoscendone la capacità di autodeterminarsi dentro le forze della Storia.
Mantenerne viva la memoria è, nell’imperativo di Primo Levi, un meditare che questo è stato.
«Con me è venuta mia moglie (…) che avendo adottato i miei genitori come suoi viene anche ad essere una specie di sorella:
i suoi li ha persi di vista in tempo di guerra, in quella stazione all’aperto,
al confine tra la Polonia e la Cecoslovacchia, Oswiecim.
Mi ha detto che a sud si vedevano dei monti lontani, la catena dei Tatra»
Luigi Meneghello, Pomo pero (1974)
1. Katia: ritratti di infanzia e gioventù
Katia Bleier (Kato, diminutivo di Katalin) nasce nel 1919 da Mavro, di professione intagliatore, e Malvina Grünwald, ebrei jugoslavi di lingua e cultura ungherese.
È l’ultima figlia, dopo Olga, Vera, Laci, e Géza. Vivono a Novi Vrbas, nella Bačka meridionale, in Vojvodina: una regione multietnica e di frontiera della pianura pannonica, oggi in Serbia, che con la Prima guerra mondiale passa dall’Ungheria alla Jugoslavia. Nel 1928 si trasferiscono a Zagabria.
Qui, i destini dei familiari si separano nell’aprile 1941, quando la città è occupata dai tedeschi e il pericolo di vita per gli ebrei si fa altissimo. I fratelli con le famiglie seguono strade indipendenti. Kato, poco più che ventenne, riporta i genitori, Aranka, moglie di Laci, e il nipotino Volvili nella nativa Bačka controllata dagli ustascia, trovando rifugio a Zenta presso lontani parenti. Le condizioni economiche sono quanto mai precarie; Kato lavora come sarta, e si fa carico di rischiosi viaggi a Budapest per il rinnovo dei permessi.
2. Zenta, 1942: prima della deportazione
Una foto spedita a Olga ritrae, per l’ultima volta, Kato, Aranka, Malvina, Mavro e Volvili. Scrive Kato: «Cosa ne dite, Volvili ha già tre anni e in settimana gli verranno tagliati i capelli. Ho paura perché così con questi capelli è tanto dolce. Ieri gli abbiamo fatto una bella foto per l’ultima volta con i suoi capelli. (…) Non potete neanche immaginare quanto è curioso di tutto e sa tutto» (Zenta, 17.ix.’942).
Nella primavera del 1944, l’avanzata tedesca travolge anche la Bačka. Deportati ad Auschwitz-Birkenau, Kato è l’unica a sopravvivere alla selezione d’arrivo. Allo smantellamento del campo di sterminio nel gennaio 1945, è tra i superstiti tradotti a piedi a Magdeburgo e in treno fino a Belsen. Alla liberazione inglese del campo, ad aprile, è ancora in vita.
3. Malo, 1946: una nuova vita italiana
Dopo un periodo in sanatorio, Kato rientra a Zagabria, attraversando l’Europa distrutta. Non ha più nessuno, e, nonostante le venga negata l’autorizzazione riesce a entrare in Italia da clandestina e raggiungere Olga a Malo nel 1946.
Il primo documento ufficiale della nuova vita è la carta d’identità rilasciata a Katia Bleier di Mavro, il 6 giugno 1946, nella nascente Repubblica Italiana.
Il prestampato reca ancora segni del vecchio regime: il podestà cui si sovrappone sindaco, l’indicazione della razza, lasciata in bianco, così come l’incerta nazionalità. Sul retro, Regno d’Italia, e sotto, barrato, Repubblica Sociale Italiana.
A Malo il percorso di Katia si intreccia con quello di un ex partigiano azionista dalle confuse aspirazioni politiche, Luigi Meneghello, che la ricorda così: «Una ragazza piacente, vivace, straniera, culturalmente attraente (perché siamo esterofili), che viene da una famiglia di ebrei osservanti e non crede in Dio…» [*]
4. 1947-48, a Milano
Quando Gigi lascia Malo per l’Inghilterra, Katia è a Milano, dove lavora come première in una sartoria di moda; la raggiunge per qualche tempo Olga, mentre Jenö è in sanatorio. I ritratti sorridenti di quegli anni, in posa presso lo studio fotografico Petri di via Montenapoleone, testimoniano di una nuova fase di speranza, aperta al futuro.
Sposatisi a Milano con rito civile, inizia per Katia e Gigi il regolare pendolarismo scandito dal calendario universitario, tra l’Inghilterra (fino al 1980 a Reading, poi a Londra) e il Veneto (a Malo e Thiene). Gli inizi inglesi sono segnati dalla recrudescenza della tubercolosi di lei, con un’operazione chirurgica e una lunga degenza al sanatorio di Peppard. Solo dalla metà degli anni cinquanta prende avvio una gratificante vita di coppia che li vede affiancati in famiglia, nel lavoro intellettuale, nelle amicizie, nei viaggi.
Katia si spegne a Malo nel 2004, seguita dopo tre anni da Gigi.

Katicabogár è il nome ungherese della coccinella, che dice l’insetto di Katia

Kato bambina con la madre
(timbro della polizia di Zagabria)

Sul retro:
A Laci, con vera amicizia,
Kato.
Zenta, 1943 IV 22

Aranka e Kato,
Malvina, Mavro con Volvili
(Zenta, settembre 1942)

Carta d’identità italiana di Katia Bleier
(Malo, 6 giugno 1946)

Ritratto fotografico dello Studio Petri,
via Montenapoleone, Milano (1947-48)


Persecuzione, sterminio e diaspora di una famiglia di ebrei d’Europa

Mavro Bleier, 1877-1944, e Malvina Grünwald, 1883-1944





29 gennaio [1979]
«Ho sognato che K. ha comprato un treno. Durante un viaggio di ritorno, da non so dove a non so dove:
prima in ferrovia, poi su una macchina (eravamo in cinque). Ci siamo persi da una tappa all’altra di questo viaggio (ricorrente nei miei sogni)
e quando ci siamo ritrovati in una stazione simile a quella di Reading ma più grande,
K. mi ha detto che aveva avuto questa occasione e comprato questo treno: e usciti sul marciapiede del binario n.1
me lo ha indicato, due o tre binari più in là, spostato a sinistra.
Era composto di una locomotiva alta e massiccia, e vagoni in proporzione, piombati»
Luigi Meneghello, Le Carte Volume II: Anni Settanta (2000)
[*] Luigi Meneghello in conversazione con Francesca Caputo, sezione ‘Cronologia’ delle Opere Scelte, 2006.
Per le lettere della famiglia Bleier si ringraziano Fina e Giuseppe Meneghello. Le traduzioni sono di Gergely Bohács e Noemi Nagi (ungherese), e Hrvoje Maček (croato).
1941-45: i legami nella lontananza
1. Le lettere

(Zenta 11 luglio 1942)
Zenta 11. vii. 942
Miei cari Olga e Jenö!
Abbiamo ricevuto oggi la tua lettera in cui ti lamenti di nuovo con me, è vero che non ho scritto da parecchio ma credimi che non è per pigrizia ma perché sono molto impegnata.
Sicuramente Vera ti ha scritto che lavoro con Aranka e con due aiuti e quindi la sera sono stanca morta. Da questo puoi vedere che ho tanto lavoro. Non immagini neanche che bella sensazione avere del pane nelle mani e non dipendere così tanto dai parenti. Da Vera continuo a non ricevere nulla da molto tempo.
Certamente sono preoccupata per lei perché Loly racconta di quanto si senta sola, e certo fa male anche a me non essere con lei.
Anche per Géza sì che siamo preoccupati, perché non ha scritto già da Pasqua e non capisco affatto a cosa serva questo suo silenzio. Noi gli abbiamo già scritto molte volte. Mia Olga, scrivici tutto di lui e non raccontarci storielle, ormai siamo
allenati e non ci sorprende più nulla. Ti prego scrivigli di scriverci subito.
Volvili sta bene, è sempre più carino di giorno in giorno, tanto che non si può scrivere, bisogna vederlo. Mamma, papà e Aranka pure stanno bene. Abbiamo già scritto moltissime volte
che purtroppo il povero caro Laci era già morto a Pasqua. Solo da questo puoi vedere quante lettere non hai ricevuto. Un’altra grande sorpresa è successa che non mi aspettavo per niente questa settimana, Loly è venuta a trovarci e di questo
sono stata molto contenta, attualmente si trova a Pest. Potrei scrivere ancora molte cose, però penso che sia meglio se scrivo di meno.
Tante volte vi bacio.
Kato
I soldi ancora non li abbiamo ricevuti.
Anch’io vi bacio, Aranka e Volvili
Vi bacia il padre, baci mamma
Le lettere scambiate dai Bleier nei primi anni quaranta, dopo la fuga da Zagabria, offrono un prezioso quanto straziante spaccato della vita della famiglia durante la persecuzione nazista.
La lingua di comunicazione è l’ungherese, ma nel loro patrimonio plurilingue entrano anche, con vari gradi di competenza, l’ebraico, lo yiddish, il croato, il tedesco (i sopravvissuti alla Shoah aggiungeranno l’italiano e l’inglese).
In un contesto di missive non pervenute, ritardi, incomprensioni, e con il ricorso all’allusione e al non detto per passare la censura, i fratelli chiedono notizie, si aggiornano sugli spostamenti e sulle prospettive, cercano di sostenersi con l’invio di medicine, soldi, documenti.
Predominano i rimpianti, le incertezze e le angosce, con rari momenti di felicità attorno alla nascita e crescita dei bambini.
2. La mediazione di autorità e istituzioni

Risposta dell’Ufficio Prigionieri di Guerra della Croce Rossa a Eugenio Varnai
(Roma, 8.3.42 – XX)

Esteri, Direzione Generale degli Italiani all’Estero
(Valli del Pasubio, 5 giugno 1942 – XX)
Olga e il marito Jenö Varnai nel 1941 sono mandati in ‘internamento volontario’ con circa seicento ebrei jugoslavi o apolidi in Italia, in provincia di Vicenza. L’8 settembre 1943 fuggono
da Malo verso l’Italia del sud. Al campo profughi di Bagnoli arrivano anche, dalla Dalmazia, Géza con la moglie Lea e i figli infanti Ronald e George; questi, a differenza dei Varnai che non superano
i controlli sanitari, riescono a imbarcarsi sulla nave Henry Gibbins, che conduce negli Stati Uniti un migliaio di ebrei in fuga. Qui sono internati per un anno e mezzo a Fort Ontario, e poi si stabiliscono
a Brooklyn, New York. I Varnai, invece, nell’aprile 1945 rientrano in Veneto con l’Ottava armata inglese, e vi prendono residenza.
Nei documenti che presentiamo Olga e Jenö ricorrono alla Croce Rossa e al Ministero degli Esteri per avere notizie dell’altro fratello, Vladislav (Laci), di cui si sono perse le tracce. Laci è il primo dei Bleier a essere arrestato e ucciso, a Zagabria, dagli ustascia, nell’estate del 1941. I familiari lo scoprono soltanto l’anno successivo.
3. Comunicazioni interrotte e clandestinità

Cartolina di Eugenio Varnai
a Hinko Gostl,
(15.v.942)
rispedita al mittente
«Cari Olga e Jenö! 30.ix [1942]
grazie a Dio, stiamo bene e siamo sani.
Vi vogliono bene Vera e Hinko»

(30.ix.1942)
Nel 1941 Vera e il marito, il medico croato Hinko Gostl, sono catturati dagli ustascia ungheresi e confinati in Bosnia Herzegovina affinché Hinko lavori per loro.
Nel maggio 1942 la loro posta, come la cartolina qui riprodotta, ritorna al mittente: la coppia si è unita a un’unità medica dei partigiani di Tito (Vera da infermiera) e non è più reperibile.
Nel secondo testo, stringato e festoso, Vera e Hinko rassicurano
i parenti dalla clandestinità (qui la lingua non è l’ungherese
ma il croato). In calce, la nota manoscritta di Meneghello testimonia delle ricerche intraprese con Katia per ricostruire le ultime fasi della vita dei cognati, culminate in un lungo viaggio a metà anni settanta nei luoghi della lotta partigiana in Bosnia meridionale.
Vera e Hinko muoiono a 6 giugno 1943 nella battaglia sul fiume Sutjeska, un combattimento chiave della Seconda guerra mondiale che vede le forze di Tito resistere a costo di gravissime perdite, rallentando così l’avanzata nazista.
